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Titolo: No air.
Beta: [livejournal.com profile] eryslash, [livejournal.com profile] fiorediloto
Fandom: Heroes
Personaggi: Claire Bennet, Peter Petrelli; secondari: Nathan Petrelli, Monty Petrelli, Sylar, Noah Bennet (HRG), Lyle Bennet, l'Haitiano, Matt Parkman, Andy
Pairing: Claire/Peter
Parte: 3/4
Warnings: incesto e rapporti tra consanguinei; AU
Rating: NC-17
Spoilers: Fino all'episodio 1x20 'Five Years Gone'
Words count: 14.259
Summary: 8 Novembre 2006, Kirby Plaza: Peter esplode senza che nè Nathan nè Claire riescano a trovare il coraggio di impedirlo. E mentre Nathan inizia la propria scalata verso la Casa Bianca, Claire e Peter cercano, con scarso successo, di accettare quanto profondamente sia cambiata la loro vita. Dopo tre anni dal loro ultimo incontro, nel giorno in cui il destino butta finalmente Peter di fronte al passato da cui sta scappando da cinque anni, si ritrovano, ancora una volta, faccia a faccia.
Notes: Scritta per la IV edizione della Disfida su Criticoni {Team Lambda ♥}. Alternative Universe scaturito da un unico e fatale cambio nella storyline di Five Years Gone.
Disclaimer: Heroes e i suoi personaggi appartengono a Tim Kring e all'NBC. No air, la canzone da cui sono tratti titolo e lyrics, è di Jordin Sparks e Chris Brown.

Part I | Part II | Part III | Part IV


New York, novembre 2011

Sta respirando così forte che le orecchie le fischiano. Il sibilo del motore dell’elicottero non è neanche lontanamente insopportabile quanto il giramento di testa.

I due uomini seduti ai suoi lati la fissano tra il compiaciuto e l’incuriosito, facendola sentire una vittima di caccia (le ci vuole qualche secondo per ricordarsi che, in effetti, molto probabilmente è ciò che è).

Parkman è seduto davanti a lei, a tratti impegnato a sfogliare una rivista, a tratti a fissarla con occhi ferocemente soddisfatti. Sposta lo sguardo fuori dal finestrino con frequenza sempre maggiore.

Da due o tre minuti, l’improvviso centuplicarsi dei colori e del cemento intorno a loro li hanno informati che sono arrivati a New York.

“Dove mi state portando?” Claire si arrende e butta fuori la domanda che aveva morsicato insieme alla propria lingua per tutto il tragitto. Ha gli occhi bassi e rabbiosi, la bocca contorta in una smorfia di disgusto.

“Tuo padre.” Risponde il poliziotto con ovvietà, convinto che basti come risposta. La sua è una faccia che Claire non riconosce più, come se insieme all’età fossero intervenuti anche odio e delusione, nello scavare le rughe sul suo volto.

“Cosa gli ha fatto ricordare improvvisamente di avere una figlia?” chiede con astio.

Il poliziotto non risponde. Si limita ad alzarsi e spostarsi verso la cabina del pilota, rovistando dentro le proprie tasche.

Uno dei due uomini seduti accanto a Claire ha la pistola appoggiata sulle ginocchia. È un dettaglio così stupido che Claire si domanda cosa gliel’abbia fatto notare, finché la flebile e tenue luce dell’ultima speranza le si accende nel cervello.

È una colossale stronzata. Lo sa. Cerca di convincersi che sì, è una di quelle volte in cui vale la pena di provare.

Non può andare peggio di così, no?

Prende un paio di respiri lunghi e profondi, gli occhi chiusi e le mani che tremano – quel poco che le manette consentono loro di tremare.

“Sotto di noi c’è il Centro Nazionale, signore.” Uno dei due uomini in nero informa Parkman, quando questo è nuovamente voltato verso di loro. “Atterriamo qui?”

“Il Presidente ha chiesto di portarla direttamente a casa sua. Non voleva riceverla in mezzo al caos.” Ammicca in direzione di Claire, e un brivido le corre lungo la schiena.

Cerca di concentrarsi sull’unica informazione che potrebbe risultarle davvero utile. Il palazzo. Sotto di loro.

Tre. Due. Uno.

Trattiene il respiro e si alza in piedi di scatto, e incurante delle proteste e dei movimenti repentini dei tre uomini, agita le mani dietro la schiena e riesce ad afferrare a tentoni la pistola.

Pesta i piedi dell’uomo che l’ha immobilizzata, guadagnando un paio di secondi di vantaggio. Ne approfitta per torcere il capo fino a rischiare di rompersi il collo e sparare un paio di colpi secchi in direzione del finestrino, bucandolo con un fragore assordante.

Non pensa a nient’altro che il cielo nero e l’interminabile lista di cose che non sarebbero dovute accadere, quando calciando braccia e calpestando piedi scatta verso il finestrino ormai rotto, che si frantuma gloriosamente sotto la sua testa e la lascia precipitare fuori dall’elicottero.

Prima di chiudere gli occhi, Claire riesce solo a vedere le crepe sul cemento ingrandirsi progressivamente sotto di lei.

*

Il Presidente degli Stati Uniti sposta lo sguardo verso la finestra, tra l’infastidito e l’accigliato.

“Si è buttata giù dall’elicottero,” ripete, quasi tra sé e sé.

Matt manda giù un magone. “Signor Presidente, ho appena telefonato al capo delle Guardie Speciali che sorvegliano il palazzo. Ho detto che parlavo nel suo interesse, e sono stati scrupolosi nel garantirmi che l’avrebbero intercettata subito, comunicandomi quanto…“

“Se è riuscita a scappare, Parkman, vuol dire che la… presa non era abbastanza dura.” Sentenzia il Presidente, un leggero velo di ferocia che gli annebbia la voce.

“Dispiace anche a me, signore. Ma non ha motivo di cui preoccuparsi, conosco le Guardie di cui sto parlando. E… non vorrei trovarmi al posto di sua figlia, devo confessarle.” Butta fuori tra i denti grattandosi una tempia, sperando di suonare convincente.

“L’Haitiano è con loro?”

Matt annuisce. “Naturalmente.”

Per qualche istante, nessuno dei due proferisce parola, il lontano brusio del traffico a fare da unico rumore.

Poi il Presidente si volta verso di lui, lo sguardo abbassato sul polsino che si sta aggiustando. “Dopotutto, Parkman… non mi hai mai dato motivo di lamentarmi di te” sentenzia, facendogli inarcare silenziosamente un sopracciglio. “Se mia figlia è in buone mani, penso di potermi occupare prima del mio lavoro. C’è un anniversario da celebrare e una Nazione da rassicurare. O sbaglio, Parkman?”

*

Claire digrigna i denti senza aprire gli occhi, incapace di definire quale sia la parte del suo corpo che fa più male. Non sa nemmeno dire quanto tempo sia passato da quando ha saltato.

Solo adesso si rende conto di quanto sia stata stupida la sua idea, e si chiede perché l’elicottero non sia atterrato anch’esso sul tetto del palazzo per riprenderla. Forse è riuscita a spaventarli più di quanto abbia impietosito se stessa, ma le basta sollevare appena il capo da terra perché il naso prenda a farle troppo male e non riesca più a pensare a niente.

Un’altra dolorosa consapevolezza si impadronisce di lei quando si rende conto della catena che unisce le manette, intrappolata tra il suo bacino e il cemento. Facendo perno su una spalla riesce a voltarsi supina, trovando un flebile conforto nel fatto che, almeno, l’urto ha spezzato la catena.

Apre gli occhi e si porta una mano sul volto, prende un lungo respiro, e conficcandosi le unghie nel palmo dell’altra mano cerca di raddrizzare la cartilagine del naso. È un bruciore lancinante che la attraversa e la fa tremare da capo a piedi, e quando riapre gli occhi sono lucidi per le lacrime.

Deglutisce qualche goccia di sangue colatale in bocca e curva le labbra in una smorfia di disgusto.

A fatica si tira su a sedere; poi, implorando le proprie gambe di smettere di tremare e concederle il loro sostegno, si alza in piedi e muove un paio di passi traballanti.

Ciò che resta del dolore al bacino sono piccole fitte che le impediscono di camminare per bene, costringendola sulle ginocchia quando sono particolarmente forti.

Si chiede cosa non funzioni. Si chiede cosa stia andando storto proprio adesso, dannazione. Chiude gli occhi e si lascia cadere seduta, di nuovo, il volto tra le mani. Forse sta veramente per morire.

Forse rimanere su quell’elicottero non sarebbe stata una cattiva idea, dopotutto.

Forse…

Claire.”

Una mano le sorregge la schiena e lei si accorge dell’ombra che la sovrasta, ruotando il capo fino ad intercettare il volto scuro dell’uomo.

Spreme le meningi per collegare i lineamenti familiari con qualche ricordo concreto, e ci riesce prima del previsto. Non ha mai saputo il suo nome, e non ce n’è mai stato bisogno. L’Haitiano. Nient’altro.

“Cosa… dove…”

“Devi venire con me.” Lo dice in tono grave, aiutandola ad alzarsi e non incontrando alcuna resistenza.

“Dove siamo?”

“Il centro di ricerca del dottor Suresh.” Spiega l’uomo con una certa urgenza, incamminandosi verso la scala scavata nel tetto.

Claire sente la testa vorticarle più forte, ora. Cerca di formulare una domanda che metta insieme la marea indomata di dubbi che le occupano il cervello, ma rinuncia presto. “Nath… il Presidente? Mi stava cercando, sono venuti a prendermi in Texas!”

“Non è del tutto corretto, Claire.”

Si sono appena inoltrati nella semioscurità della scala, penetrando sempre di più verso le viscere del palazzo.

“Allora cosa…”

“Il Presidente ti sta ancora cercando.” Fa duro l’uomo. Il sangue congela nelle vene della ragazza.

“Sa che sei qui.”

Claire si divincola dalla sua presa, rischiando di rovinare giù per la scalinata. “Cosa? Mi stai portando da…”

Non sa come avvenga. Sa solo che un secondo dopo si trova immobilizzata contro il muro, una mano dell’Haitiano contro la bocca.

“Una squadra speciale ti sta cercando.” Abbassa progressivamente il tono di voce, guardandola attentamente negli occhi. “Io lavoro insieme a Parkman.” Rafforza la presa quando Claire prende ad agitarsi nuovamente. “Ma se fai quello che dico io, non ti succederà niente.”

La ragazza si morde un labbro per non urlare nel momento in cui l’uomo sposta la mano e riprende a camminare, incalzando ulteriormente il passo quando un rumore in lontananza segnala loro che non saranno soli ancora per molto. Trattiene l’istinto di correre e si stringe maggiormente a lui. Si immergono in un corridoio infinito, costeggiato da innumerevoli porte bianche e sterili, tutte spaventosamente uguali ad eccezione della piccola targa posta a fianco di ognuna.

Quando l’Haitiano si ferma di colpo, Claire fa appena in tempo a leggere il nome Parkman sulla targa, prima di essere spinta dentro una stanza.

È piccola e bianca, occupata da nient’altro che una scrivania cosparsa di scartoffie, tre sedie, un armadio e una finestra.

“Adesso posso sapere cosa sta succedendo?” domanda impaziente, dopo che l’uomo ha girato la chiave nella serratura.

Le fa cenno di aspettare, prima di raggiungere la scrivania e sollevare la cornetta del telefono. Digita tre cifre sulla tastiera.

“Signor Wakee, ho intercettato la ragazza. Si trova nel secondo ufficio di Parkman, e la sorveglio io. Come – non occorre che lo verifichiate di persona. Fate… come sarebbe a dire.” L’Haitiano di blocca di colpo, interdetto. “È… qui? Dentro questo palazzo? … ne terrò conto, Wakee. Grazie. Fate rapporto a Parkman, per favore.”

Claire sgrana gli occhi, a metà tra il terrore e la rassegnazione. Cerca di convincersi di non averci mai creduto, in fondo. Che comunque vada, sarà meglio di ciò che sarebbe successo se fosse rimasta su quell’elicottero.

“Non è come pensi,” taglia corto l’uomo, interpretando il suo sguardo.

La ragazza si limita a sollevare gli occhi su di lui.

“Petrelli è qui.”

Un brivido corre lungo la schiena di Claire. “È venuto a cercarmi?”

“Non sto parlando del Presidente, Claire.”

La ragazza fa per ribattere indispettita, ma si blocca con la bocca semiaperta e gli occhi sbarrati. “Di quale… Petrelli stai parlando?”

L’uomo sospira. “Del fratello del Presidente. Peter.”

Claire scatta in piedi facendolo allarmare all’istante, e digrigna i denti con rabbia quando l’uomo la blocca.

“Tra le persone che vivono su questo pianeta è quella che ti può tenere più in salvo di chiunque altro.” Cerca di spiegare l’Haitiano, sovrastando le sue proteste.

“Allora lasciami andare.” Claire continua a divincolarsi, ma l’uomo non demorde.

“Questo palazzo è un campo minato!” Spalanca gli occhi puntandoli con violenza in quelli di lei, e per un attimo Claire sembra gettare la spugna. “Se davvero vuoi riuscire a trovarlo, dobbiamo studiare un piano. Insieme.”

Per qualche attimo silenzioso e imbarazzante, Claire sente le sue guance diventare rosse. Chiude gli occhi, per riaprirli subito dopo. “Perché lo stai facendo?”

L’Haitiano distoglie lo sguardo, spostando lo sguardo verso la finestra. “Perché questo mondo è marcio, e mi piace meno di quanto piaccia a te.”

*

Peter si chiede come sia possibile che i suoi occhi riescano ancora a vedere, tanto forte è la rabbia che glieli sta pungendo. Preferirebbe dieci, cento, mille volte non vedere, né sentire niente.

Soprattutto il sottile trionfo di cui è intrisa la voce che, mentre i passi muovono verso di lui, lo prende in giro con un canzonatorio: “Fratello contro fratello, sembra quasi un’impresa biblica.”

È la voce che dovrebbe saper distinguere in qualsiasi caso, in qualsiasi situazione, a prescindere da tutto il resto. Non dovrebbe fargli così male.

Cerca di concentrarsi su cosa possa esserci di storto. Non funziona. E non è solo la sua sensazione di nausea a dirglielo. Suo fratello non…

“… mio fratello non passa attraverso i muri.” La sua bocca sa di amaro. “Chi diavolo sei?”

Il volto di Nathan prende a sfigurarsi orribilmente, sempre di più, trasformandosi nella faccia di qualcun altro.

Per il resto della sua vita, Peter si chiederà se la terra abbia davvero iniziato a tremare sotto i suoi piedi in quel momento, o se sia stata solo una sua sensazione.

Sylar piega la bocca in un ghigno quasi perverso. “Qualcuno che è stato incolpato di aver raso al suolo New York, ma io e te sappiamo che non è vero, giusto, Pete?”

Peter implora la propria mente di fermarsi e smetterla di fare ragionamenti, di trarre conclusioni su ciò che è successo a suo fratello.

Di colpo non sa più cosa stia facendo lì, in quel momento.

“Pagherai per quello che hai fatto a Nathan,” ruggisce piano, sentendo il proprio respiro riempirgli le orecchie. “Per quello che hai fatto in nome suo.”

“Avrei preferito affrontarti con qualche garanzia in più, devo confessarlo,” la situazione, in qualche modo, sembra divertirlo incredibilmente, “ma la stronzetta non era disponibile.” Ridacchia. “Quindi vedi di non farmi troppo male, va bene?”

Claire. Peter strizza forte gli occhi.

“Giuro che ti strappo via lo stomaco.”

Sylar riduce gli occhi a due fessure, curvando le labbra in una smorfia. “Perfetto.” Ciascuna delle sue mani si accende all’improvviso, incandescente. “Pensavo avessi voglia di parlare ancora un po’.”

*

Claire appoggia la nuca al muro e chiude gli occhi, singhiozzando e sentendo le guance e il collo pruderle per le lacrime. Cerca di non guardare a sinistra, ma i lampi sono troppo accecanti perché possa ignorarli. Le basta girare l’angolo, e poi c’è l’inferno.

Il suo cuore sa che è ciò che deve fare, niente di più e niente di meno.

Le sue gambe non riescono a schiodarsi.

“È tutto a posto, Claire.” La mano dell’Haitiano sfiora la sua. “Puoi farlo. Sei l’unica che può.”

La ragazza scuote il capo. Non ha paura. Sa solo che è mille volte peggio della paura.

“Devi fare in fretta.”

Claire si asciuga le lacrime con violenza, cercando di tornare a respirare ad un ritmo almeno accettabile. Le gira la testa, ma non è un dettaglio a cui intende prestare troppa attenzione.

“Conosco un modo veloce per uscire da qua,” le spiega piano l’uomo, lo sguardo perso lungo il corridoio. “dal momento in cui inizio a correre devi aspettare che siano passati trenta secondi. Dal momento in cui sono fuori, non corri alcun rischio che il tuo potere non funzioni.”

La ragazza tira su col naso, scossa da un brivido. “Sei sicuro che bastino trenta secondi?”

L’Haitiano alza gli occhi al cielo. “Contane quaranta. Ma non di più, non c’è tempo.”

Claire deglutisce. Non si sente così da quando anni fa, ai piedi di una rampa di scale, le è stata messa una pistola in mano.

Non dura più di un attimo, ma riesce a pensare che forse ha finalmente trovato il modo di pagare il conto al mondo.

“Claire.”

Annuisce. “D’accordo. Ce la… posso fare.”

Quando l’Haitiano le dà le spalle, lo ferma afferrandogli debolmente un polso.

“Grazie.”

L’uomo si volta per incontrare un’ultima volta i suoi occhi.

“Io ci credo, Claire. E non voglio sbagliarmi.”

Aspetta un suo breve cenno del capo, prima di voltarsi nuovamente ed iniziare a correre lungo il corridoio.

Quaranta.

Trenta.

Venti.

Le mani gli bruciano per il calore e per lo sforzo, ma Peter stringe di più i denti e serra maggiormente gli occhi, cercando di impedire al fascio di lampi di accecarlo completamente. Non sa quanto ancora possa andare avanti senza perdere il controllo del proprio corpo, che diventa sempre più bollente.

Dieci.

Spalanca la bocca in un grido liberatorio e disperato, concentrando nelle proprie mani tutta la forza di cui dispone e trent’anni di un’esistenza che deve pur aver portato a qualcosa. Ed è ora che questo qualcosa venga fuori. Avanti, figlio di puttana. Lo so che non puoi resistere per sempre.

Cinque.

Ha smesso di sperare, smesso di pregare, di pensare, di odiare e di provare dolore. L’unica cosa che può fare è ripetersi nella testa l’unica consapevolezza rimastagli. Che questa volta. Non andrà. A finire. Così.

No. No. No.

… poi qualcosa gli si para improvvisamente davanti, schermando i lampi scagliati da Sylar. In una frazione di secondo, il bruciore insopportabile scema leggermente, lasciandogli la possibilità di realizzare che quello davanti a lui è un corpo. Un corpo più piccolo del suo.

In lontananza, schermati in parte dalla nuvola elettrica, gli occhi sbarrati di Sylar.

“Peter… !” geme disperatamente la figura davanti a lui, mentre i suoi occhi mettono a fuoco la cascata di capelli castani, “M-muoviti, t-ti pre-go…”

È l’attimo più lungo della vita di Peter. L’attimo in cui milioni di immagini gli attraversano il cervello accompagnati da milioni di click di una macchina fotografica immaginaria, l’attimo in cui l’immagine di occhi tristi e capelli biondi gli si materializza dentro le pupille nel riconoscere quella voce, l’attimo in cui le mani prendono a prudergli di tutto il dolore che ha causato e che ha subito.

“PETER!”

Con un urlo feroce e spietato, Peter afferra la vita di Claire tenendola stretta a sé, prima di lasciare all’altra mano la possibilità di accendersi nuovamente.

E senza pensare ad altro, scaglia con violenza il la sfera di energia verso Sylar.

*

Quando apre gli occhi, la testa gli fa troppo male perché riesca a sollevarla dal pavimento senza gridare. Reprime l’urlo mordendosi la lingua e le labbra, tramortito dal peso morto crollatogli addosso e il naso assuefatto dall’odore di bruciato.

“Claire…” mormora rauco, cercandole il volto e lottando contro il terrore di leggervi l’irreparabile. Ha gli occhi socchiusi e cerchiati da due aureole di un rosso spaventoso, la saliva condensata ai lati della bocca e qualche rivolo di sangue marrone incrostato accanto al naso. Ma respira.

Un concerto assordante di passi lo circonda, suggerendogli che non manca molto prima che qualcuno si concentri su di loro. Per ora le attenzioni sembrano essere tutte rivolte verso Sylar, malamente steso sul pavimento con la bocca semiaperta, gli occhi vuoti ed una mano protesa.

“Agente, ci sono altre due vittime…”

“… ma quello non è…”

“È Petrelli, signore.”

“Peter Petrelli…?”

“… signor Petrelli, permette…”

“Ma che diavolo è successo?”

Peter tira un lungo respiro intramezzato da un colpo di tosse. Si assicura che entrambe le braccia di Claire siano allacciate al proprio collo, prima di stringerla con forza, chiudere gli occhi, concentrarsi con un debole gemito di dolore e sparire.

* * *


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